lunedì 29 ottobre 2007

COSE CHE DIMENTICO


C'é un amore nella sabbia un amore che vorrei un amore che non cerco perché poi lo perderei .C'e un amore alla finestra tra le stelle e il marciapiede non é in cerca di promesse e ti da quello che chiede. Cose che dimentico cose che dimentico sono cose che dimentico. C'e un amore che si incendia quando appena lo conosci un' identica fortuna da gridare a due voci. C'e un termometro dei cuore che non rispettiamo mai un avviso di dolore un sentiero in mezzo ai guai. Cose che dimentico sono cose che dimentico. Qui nel reparto intoccabili dove la vita ci sembra enorme perché non cerca più e non chiede perché non crede più e non dorme .Qui nel girone invisibili per un capriccio del cielo viviamo come destini e tutti ne sentiamo il gelo il gelo e tutti ne sentiamo il gelo. C'e un amore che ci stringe e quando stringe ci fa male un amore avanti e indietro da una bolgia di ospedale. Un amore che mi ha chiesto un dolore uguale al mio a un amore così intero non vorrei mai dire addio. Cose che dimentico sono cose che dimentico .Qui nel reparto intoccabili dove la vita ci sembra enorme perché non cerca più e non chiede perché non crede più e non dorme non dorme. Qui nel girone invisibili per un capriccio dei cielo viviamo come destini e tutti ne sentiamo il gelo, il gelo. Viviamo come destini e tutti ne sentiamo il gelo, il gelo. Sono cose che dimentico sono cose che dimentico cose che dimentico sono cose che dimentico.

venerdì 26 ottobre 2007

POESIA D'AUTUNNO




Come foglia gialla

lentamente cado a terra,

non c'e forza neanche un'alito di vento

che mi aiuti a rialzarmi.

Nessun papavero mi aiuta e nemmeno

mi conforta

anzi un grillo dispettoso mi saltella

sulla schiena.

La mia storia finisce quì

non c'e più vita nella mia mente

nessuna storia che prosegua

nessun autore scrive più il mio futuro.

Passano le ore, i giorni, i mesi

mi sento inutile, come se fossi già morta

ma un giorno di leggera calura

un piccolo uccellino mi raccoglie,

ha bisogno anche di me per costruire

un caldo nido.

La mia vita si rianima perchè

ora ha uno scopo...aiutare .




Monica

giovedì 25 ottobre 2007

TRIBUTO A TERRY FOX

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Credo nei miracoli
TRIBUTO A TERRY FOX
Di Eileen Pettigrew
(Articolo apparso su Reader’s Digest Selezione, Settembre
2000)
Il 17 settembre si corre a Milano, e
contemporaneamente a New York, Nairobi e
Bombay, la Corsa della Speranza, in ricordo di
Terry Fox e della sua «Maratona». «Oggi Terry
Fox potrebbe concludere la sua corsa» ha detto il
Ministro della Sanità Umberto Veronesi. «La sua
malattia, il sarcoma, si può curare e le nuove
terapie permetterebbero perfino di non amputare
la gamba. Vent’anni non sono passati invano, ma non si abbassi la guardia!
Ecco perché la marcia di Terry Fox ha un valore enorme, soprattutto per i
ragazzi».
Selezione partecipa alla Corsa, che raccoglie fondi per la ricerca sul cancro,
raccontandovi la storia di questo straordinario e coraggioso ragazzo.
Il 1° settembre 1980, dopo aver corso per 3339 miglia su una gamba vera e su una
artificiale, Terry Fox fu obbligato da una ripresa del tumore ad abbandonare la sua
incredibile maratona attraverso il Canada. Due giorni dopo, il quotidiano della sua
città, il
Vancouver Sun, scriveva: «Una volta ogni tanto appare un essere umano eccezionale,
le cui parole e azioni restituiscono la fede nella razza umana: un uomo capace di
riempire noi comuni mortali dell’orgoglio di appartenere alla stessa specie, e di
ispirarci a raggiungere vette più grandi, con un senso di indomabilità dello spirito
umano. Terry Fox è uno di questi esseri umani…»
Prima dell’alba, su un’autostrada deserta nell’Ontario settentrionale, un corridore
solitario raggiunge la cima di un colle. Sta correndo da quasi un’ora, ma l’aria è ancora
pungente di freddo. Da qualche parte un cane abbaia.
Via via che la figura snella e vestita di bianco si avvicina, diventa evidente che non si
tratta di un corridore comune. La sua andatura è convulsa, angosciante; mentre si
appoggia pesantemente alla gamba sinistra, quella buona, e fa un secondo passo per
dare il tempo alla gamba destra, quella artificiale, di spingersi avanti, il suo volto si
contorce per la fatica.
Terry Fox, ventiduenne studente universitario dai capelli ricci, un atleta di Port
Coquitlam, British Columbia, sta attraversando di corsa il Canada per dimostrare che
non è un disabile, e per raccogliere fondi per combattere il cancro che lo ha privato della
gamba sinistra tre anni prima. Ha già corso per 3298 miglia, gliene mancano 2042 per
raggiungere il suo obiettivo, l’oceano Pacifico. La sua Martona della speranza ha già
toccato i cuori e i portafogli di milioni di persone.
Un uomo e una donna aspettano accanto a un camion parcheggiato sul lato della strada.
Quando Terry passa loro accanto, gli mettono in mano dei soldi. «Dio ti benedica,
ragazzo» dicono, poi si voltano, con le lacrime agli occhi.
A est di Thunder Bay, Ontario, sente una fitta e una contrazione al petto. Quella notte si
riposa, ma il giorno successivo – 1 settembre 1980, festa dei lavoratori – si alza e
riprende a correre. Al 18° miglio tossisce e ha difficoltà a respirare. Il dolore è forte.
Affidandosi a una qualche profonda risorsa interiore continua a correre, finchè supera
l’ultimo gruppo di persone in attesa sul bordo della strada. Al 21° miglio, quando non
rimane più nessuno davanti a lui, sale dolorosamente sul furgone di accompagnamento.
«Portatemi da un medico» dice. Doug Alward, il suo accompagnatore, lo guarda
allarmato. Perché Terry Fox chieda di vedere un medico, il problema dev’essere
davvero grave.
TERRANCE STANLEY FOX sembrava avercela fatta, nei primi giorni del 1977.
Quell’atleta timido dai capelli castani era quasi alla fine del primo, difficile anno di
corso in cinesilogia, lo studio del movimento nel corpo umano, presso la Simon Fraser
University della British Columbia. E, cosa che per lui era più importante, aveva
raggiunto un obiettivo a cui puntava da tempo: un posto nella squadra di basket Junior
Varsity.
In febbraio cominciò a sentire male al ginocchio destro. Voleva terminare la stagione di
pallacanestro, e pensando che il dolore dipendesse da un danno a un legamento o alla
cartilagine lo ignorò il più a lungo possibile. Alla fine andò a farsi vesitare, e gli fu detto
che il problema era dovuto a una reazione chimica. Gli fu somministrato un farmaco e il
dolore sparì.
Terry continuò le sue attività sportive regolari. La sera che prese le ultime pillole del
flacone fece sette giri di pista correndo senza fastidi, ma una volta a casa il ginocchio
cominciò a dolergli. Betty Fox, sua madre, gli suggerì un bagno caldo. Non servì. Il
mattino dopo il dolore al ginocchio era talmente forte che Terry non riuscì ad alzarsi dal
letto. «Prendevo gli antidolorifici, quindi non me ne ero reso conto» disse in seguito.
Rolly Fox accompagnò suo figlio al Royal Columbian Hospital di New Westminster,
dove gli specialisti lo sottoposero a una serie di esami. In seguito Michael Piper, un
chirurgo ortopedico, disse a Rolly che sospettava che Terry avesse un sarcoma
osteogeno del ginocchio destro, un cancro osseo.
Quella sera i Fox raggiunsero in auto l’ospedale dalla loro casa di Port Coquitlam,
portando con sé i due fratelli di Terry, Fred e Darrel, e sua sorella Judith. C’era anche il
timido Doug Alward, un amico di scuola dai tempi della terza media.
Malgrado Terry avesse cominciato a chiedersi il motivo della quantità e della varietà
degli esami a cui era stato sottoposto, confidava ancora nel fatto che il problema si
sarebbe rivelato uno dei disturbi al ginocchio tipici degli atleti. Quando arrivarono i suoi
genitori, il dottor Piper gli diede la notizia. «Hai un tumore maligno» disse a Terry con
delicatezza. «È un cancro osseo, dovremo fare una biopsia. E forse saremo costretti ad
amputare.»
Lo shock più tremendo non fu la notizia di avere il cancro - «Avevo un’idea molto vaga
del significato di “maligno”, finchè il medico me lo spiegò» - ma capire che avrebbe
potuto perdere la gamba.
Come sempre i Fox, una famiglia molto unita, ne parlarono insieme. Si abbracciarono e
piansero. Dopo quella prima, terribile notte Terry non ebbe il tempo di deprimersi. La
sua stanza fu invasa da parenti, amici e compagni di squadra.
Fra quelli che andarono a trovarlo ci fu Terry Fleming, l’allenatore di basket della
«Poco High», la scuola secondaria di Port Cocquitlam. Prima di partire per l’ospedale,
Fleming aveva pensato molto alla sua visita. Voleva dire a Terry qualcosa di positivo e
di incoraggiante. Qualcosa che gli desse un obiettivo. Così portò con sé una copia della
rivista Runner’s World che conteneva un articolo su Dick Traum, un uomo di
trentacinque anni al quale era stata amputata una gamba, ma che era riuscito a
completare la maratona di New York. Quando Fleming porse a Terry la rivista non
aveva idea di cosa stesse mettendo in moto.
La storia del coraggioso Dick Traum colpì l’immaginazione di Terry. Anche allora,
senza sapere se avrebbe di nuovo potuto camminare, cominciò a sognare di correre in
una maratona. Il sogno diventò un progetto. Avrebbe fatto di più di correre in una
maratona di 26 miglia: avrebbe attraversato di corsa il Canada da una costa all’altra. E
correndo avrebbe raccolto fondi per la ricerca sul cancro. I medici gli avevano detto che
grazie alla scoperta della chemioterapia le sue possibilità di sopravvivere superavano il
50 per cento. Con la sola amputazione, la prospettiva sarebbe stata solo del dieci per
cento.
Pensò: quali altre cose potrebbero scoprire se avessero più soldi?
Eppure… attraversare correndo il Canada su una sola gamba buona era veramente una
fantasia, ed era sicuramente troppo pazzesca per parlarne con chiunque, per il momento.
L’8 marzo 1977, quattro giorni dopo il suo ricovero in ospedale, a Terry fu amputata la
gamba destra, 15 cm sopra il ginocchio. Aveva 18 anni e questa era la realtà, non una
fantasia.
«Okay, giochiamo»
NATO A WINNIPEG nel 1958 da una famiglia di pionieri Manitoba, con sangue
inglese, scozzese, tedesco, francese e olandese nelle vene, Terry Fox ha alle spalle
generazioni di agricoltori dal lato materno, e di ferrovieri da quello pateno. Ha assorbito
lo spirito competitivo dell’esempio di suo padre Rolly, 45 anni, un muscoloso scambista
che lavora nelle Ferrovie canadesi, dal volto abbronzato e segnato, illuminato da un
sorriso pronto. Rolly faceva la lotta coi suoi figli, quando erano piccoli. «Ci batteva
sempre» dice Terry. «Noi piangevamo, ma non ci arrendevamo mai.»
Rolly fox non lasciò mai che i suoi figli vincessero una partita solo perché erano
bambini. «Rolly» dice suo fratello Rod «intendeva insegnare loro che i premi della vita
non sono tanto facili da ottenere, che dobbiamo sempre lottare e faticare. Mi ricordo che
anche nostro padre giocava alla stessa maniera con me e i miei fratelli.»
Le due famiglie Fox, che vivono relativamente vicino a Winnipeg e che hanno figli
della stessa età, trascorrevano molto tempo insieme. A Rolly e Rod piaceva molto
giocare a hockey per strada coi bambini. «Io mi facevo piccola» dice Elizabeth, moglie
di Rod «sapendo cosa avrebbero detto i vicini: “Ecco, ci risiamo coi Fox che occupano
tutta la strada.”»
La tipica determinazione di Terry si fece vedere presto. Durante una partita a softball
coi cugini, quando aveva più o meno sette anni, gli sanguinò il naso e dovette essere
portato in ospedale, dove l’emorragia fu fermata con una cauterizzazione. Tornato al
parco in meno di un’ora, Terry andò dritto in campo e impugnò una mazza. «Okay,
giochiamo» disse. Sua zia Elizabeth era dubbiosa. «Pensate che sia il caso che ricominci
subito a correre qua e là?» I genitori di Terry alzarono le spalle. «Se Terry ha intenzione
di fare una cosa, la fa» disse Betty.
I Fox si trasferirono nella British Columbia quando Terry aveva quasi otto anni, per
stabilirsi a Port Coquitlam, dove ancora vivono in una graziosa casa bianca di legno a
due piani. La famiglia, piena di entusiasmo, ruotava intorno al suo perno impassibile:
Betty Fox. Con quattro figli avuti in otto anni – prima Fred, poi Terry, Darrel e Judith –
tutti sportivi, tutti veloci nell’inalberarsi ma ancor più veloci a perdonare, gestiva la casa
con mano ferma, aspettandosi e ottenendo dai suoi figli autonomia e senso di
responsabilità. Quando volevano una cosa non la ricevevano in regalo: si trovavano
qualche lavoretto nel quartiere e risparmiavano fino a potersela permettere. Da quando
erano cresciuti abbastanza per rifarsi il letto tenevano pulite le loro stanze e facevano a
turno per lavare i piatti.
I Fox non credevano di dover fare da autisti a ragazzi capacissimi di spostarsi da soli,
quindi i bambini andavano a piedi agli allenamenti, anche se i genitori erano sempre
pronti a incoraggiarli. Insistevano, per esempio, sul fatto che una volta entrato in una
squadra, un giovane Fox non potesse in alcun caso piantare in asso i compagni a metà
dell’anno. I vicini Mary e Ronald Fiddy ricordano Terry sempre con la mazza da
baseball e una pallina o una mazza da hockey in mano. Lo sport era la sua vita.
Durante l’ottavo anno di scuola fece amicizia con Doug Alward, giocatore titolare di
pallacanestro e specialista di corsa campestre, anche lui residente a Port Coquitlam.
«Terry è la persona più determinata che io abbia mai conosciuto» dice. «Giocare a
basket gli piaceva da impazzire, e insisteva sempre perché giocassi con lui. Però non
aveva assolutamente talento, così gli dicevo “no, non mi va di giocare con te, sei
negato”. E lui continuava a starmi dietro, finchè cedevo e uscivamo a fare qualche tiro.»
Terry era più basso della maggior parte dei suoi compagni di classe. Essendo silenzioso
e timido, aveva il vizio di abbassare la testa quando pensava che gli avrebbero fatto una
domanda in classe, e arrossiva quando una ragazza lo guardava. Qualsiasi cosa la classe
di educazione fisica di Bob McGill facesse, Terry era nel gruppo, ma dava il meglio di
sé. «Durante una staffetta al nono anno la squadra di Terry stava perdendo. I tre ragazzi
che avevano corso prima di lui non valevano molto e la squadra era decisamente
indietro, ma Terry corse comunque al massimo delle sue possibilità. Non si arrendeva
mai.»
Entrò nella squadra di pallacanestro con altri 18 ragazzi, e gli fu assegnato il numero 19.
Bob McGill, che allenava la squadra, era il tipo di persona a cui Terry reagiva bene,
sempre a chiedere il massimo ai suoi giocatori. «Solo i 12 migliori entravano in campo,
e i ragazzi lo sapevano. Quando Terry osservava Doug giocare, gli si vedeva crescere
dentro la decisione di essere bravo come lui; era sempre in competizione, sempre,
sempre.»
McGill tentò di convincere Terry a dedicarsi alla lotta, una disciplina in cui si sarebbe
battuto con ragazzi della sua stessa taglia e con analoghe capacità, ma Terry non voleva
rinunciare al basket, e McGill non lo tolse dalla squadra. Partecipò a tutti gli allenamenti
e scaldò la panchina per tutto l’ottavo anno. Il non anno di scuola fu lo stesso, ma lui
continuò a provarci. Finalmente al decimo anno, quando alcuni dei giocatori più bravi
erano in gita scolastica, Terry ebbe la sua possibilità e sorprese l’allenatore con alcune
delle sue mosse. Quell’estate ci diede dentro, allenandosi ogni giorno con un paio di
giocatori. L’anno successivo era titolare. Il suo non era una talento naturale, veniva dal
lavorare sodo.»
Nemmeno lo studio fu una passeggiata per terry, ma si impegnò a fondo e finì per
ottenere il massimo dei voti.
L’estate prima che Terry e Doug iniziassero a frequentare la Simon Fraser University,
Terry annunciò che intendeva giocare a basket nella squadra dei Junior Varsity .
Sapendo che in genere i candidati erano fra i venti giocatori più bravi della provincia e
che Terry non era nemmeno fra i primi 200, Doug era scettico. Quell’estate Terry
dedicò ogni minuto libero agli allenamenti, ed entrò nella squadra.
«Fu un ottimo risultato» dice l’allenatore Alex Devlin. «Se Terry avesse potuto
continuare, avrebbe avuto un ruolo importante nella squadra.»
Ma l’estate del 1977 Terry non ebbe alcuna possibilità di continuare. Dovette affrontare
un’altra sfida, la più dura della sua vita, e l’affrontò nel modo in cui aveva affrontato
ogni altra sfida: a testa alta.
«Cosa cerchi di dimostrare?»
Pochi giorni dopo l’operazione, il protesta Ben Speicher gli applicò una gamba
artificiale provvisoria e Terry imparò a spostarsi per i corridoi dell’ospedale. Sei
settimane dopo aveva la sua protesi definitiva, era tornato a casa e giocava a golf.
La nuova gamba era leggera, e per Terry manovrarla non era difficile. Un manicotto di
plastica morbida fissato al moncone era collegato a una giuntura del ginocchio
incernierata, e sotto a quello un tubo di alluminio si estendeva fino a un piede fisso, sul
quale Terry poteva indossare una calza e una scarpa uguali a quelle del piede sinistro.
All’interno del manicotto, una valvola d’aspirazione teneva la protesi al suo posto.
Adattarsi alla nuova gamba fu relativamente facile - «Terry ha una forte muscolatura»
dice Speicher «e reagì bene» - ma le visite mensili all’ospedale per la chemioterapia
erano un’altra storia. «Fu davvero terribile, non lo dimenticherò mai» dice Terry
impetuosamente. I farmaci somministrati per via endovenosa, methatrexate e
adriamicina, non erano nuovi, ma l’alto dosaggio del primo richiedeva l’impiego di un
antidoto, l’acido folinico. I trattamenti lo logoravano. I suoi capelli castani e ondulati
caddero, un effetto collaterale temporaneo della terapia, e dovette indossare una
parrucca. Fu un trauma. «Mi sconvolse di più perdere i capelli che perdere la gamba.»
Ma era deciso a non farsi compatire, e a evitare che l’arto artificiale creasse differenze
fra lui e gli altri.
Fra una visita e l’altra all’ospedale capì che non avrebbe potuto dimenticare le persone
che vi aveva incontrato. «Conobbi persone della mia stessa età, alcune più giovani, che
avevano un altro tipo di cancro. Non sono più vive. In qualche posto il loro dolore si
doveva fermare.» A questo riguardo Terry decise di spingersi fino al limite.
In autunno, sei mesi dopo l’operazione, Terry riprese a frequentare le lezioni alla Simon
Fraser University. Guidava la sua macchina, equipaggiata con l’acceleratore a sinistra
obbligatorio.
In ospedale aveva studiato, ed era pronto per cominciare il secondo semestre insieme ai
compagni di corso. La laurea in cinesilogia prevedeva esami di anatomia, fisiologia e
biomeccanica, e la sua media era alta. Il dottor William Ross, il suo professore, vedeva
un ottimo avvenire per lui come capo di esercitazione fisica.
Carallyn Bowes, un’assistente, lavorò con Terry per diversi mesi prima di capire che gli
era stato amputato un arto. «Non lo faceva mai pesare, e quando lo vedevamo
camminare vestito normalmente sembrava un atleta che si era fatto male al ginocchio,
magari uno sciatore.»
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Deciso a non perdere i contatti col suo antico amore, il basket, Terry entrò nei
Vancouver Cablecars, una squadra di pallacanestro per disabili.
Nel marzo 1979 decise che era pronto per allenarsi a correre. Non aveva dimenticato il
sogno di una corsa attraverso il Canada. Speicher, fra i pochi a conoscenza del progetto,
tentò di dissuaderlo. «È un’impresa troppo ardua, cosa cerchi di dimostrare?» gli
domandò. Ma non ebbe più successo degli altri che tentarono di smorzare l’entusiasmo
di Terry, in quel momento o in seguito.
La prima volta che tentò di correre, per un quarto di miglio, si ritrovò tremante ed
esausto. «Pioveva e la pista era cosparsa di pozzanghere. Quel giorno, quando ebbi
finito crollai di stanchezza. Pensavo: come potrò mai farcela? Avevo male alla schiena e
alla gamba ed ero così stanco.»
Ma il giorno dopo corse di nuovo, e lo stesso il giorno dopo ancora, aumentando il
percorso di mezzo miglio a settimana. Speicher, che vive a Port Coquitlam, si abituò a
sentire Terry bussare alla sua porta la sera. «Mi stringi la giuntura del ginocchio, per
favore?» chiedeva. A riparazione ultimata, Terry correva via.
La gamba artificiale restava ferma grazie alla valvola di aspirazione, ma sollevarla e
spingerla avanti in un passo regolare richiedeva uno sforzo immenso. Speicher decise di
unire due cinghie, avvolgendone una alla vita di Terry e fissando l’altra al manicotto
della protesi. Questo lo aiutava a protendere la gamba, ma a ogni passo doveva
comunque alzare la parte destra del corpo per sollevare la gamba da terra. Alla gamba
destra occorreva più tempo del normale, per completare il suo arco, così Terry doveva
saltellare due volte sul piede sinistro. Ogni passo lo faceva sobbalzare.
Col crescere della forza cresceva anche ciò che pretendeva da se stesso. Iniziava ogni
mattina con una corsa, poi risaliva in sedia a rotelle una collina di tre miglia fino al
campus della Simon Fraser, dove sollevava pesi per un’ora prima delle lezioni. Correva
ancora la sera. Ogni settimana, le tre sere degli allenamenti dei Cablecars parcheggiava
la macchina a una certa distanza e correva fino alla palestra. «Era assolutamente
determinato a fare tutto» dice Doug Alward. «A volte lo amavo, a volte lo odiavo, e a
volte mi faceva piangere.»
Terry cominciò a sentirsi forte, sul piano fisico come su quello emotivo. Ci stava
riuscendo. Una donna che lo aveva visto allenarsi a
correre gli scrisse tempo dopo: «Alla fine dell’estate
e in autunno abbiamo sentito la tua mancanza, e
quando all’improvviso sei comparso di nuovo
abbiamo notato il tuo incredibile miglioramento. La
tua gamba era grossa quasi il doppio, molto forte e
muscolosa. Tutto il tuo corpo sembrava più forte e ti
muovevi con più facilità, senza mostrare stress o
dolore. Anzi, sembravi proprio soddisfatto – a
ragione – dei tuoi progressi. Forse in quel periodo
stavi programmando la corsa attraverso il Canada.»
Era così, anche se nemmeno i genitori di Terry lo
sapevano.
Il 2 settembre 1979 Terry partecipò alla corsa
annuale di Prince George. Corse anche Doug, che
arrivò ottavo. Terry impiegò tre ore e dieci minuti
per completare il percorso di 17 miglia e mezzo, ma
tagliò il traguardo.
«Non sono un sognatore»
TRE GIORNI DOPO Terry andò da sua madre, che era ai fornelli. «Mamma,
attraverserò il Canada correndo» disse. «Farò una maratona per conto mio, per
raccogliere fondi per la ricerca sul cancro. Puoi dirlo tu a papà?»
«Terry, è una pazzia» fece lei. «Non puoi accontentarti di raccogliere fondi vicino a
casa?» Terry uscì di casa come un fulmine, infuriato per la sua reazione. Ogni giorno,
dopo la scuola, le chiedeva: «L’hai già detto a papà?» finchè, una settimana dopo, lei lo
fece. Rolly capì che Terry era seriamente intenzionato a fare la maratona.
IN UNIVERSITÀ Terry parlò del suo progetto con dietologi, fisiologi e altri professori,
alcuni dei quali rimasero sconcertati dall’enormità dell’impresa. Ma Terry sapeva con
esattezza in cosa si stava cacciando.
Un anello fondamentale nel progetto di Terry fu Doug, che era stato messo a parte del
segreto quando Terry aveva raggiunto le tre miglia di corsa al giorno. Sarebbe stato
disposto ad accompagnarlo, occupandosi di guidare il veicolo.
Terry avvicinò Blair MacKenzie, direttore del ramo British Columbia e Yukon della
Canadian Cancer Society. MacKenzie vide qualcosa di insolito in questo giovane, una
determinazione e un’integrità che lo impressionarono. «Veda cosa riesce a ottenere per
conto suo, poi torni da noi» suggerì.
Fu programmato un ballo al centro ricreativo di Port Coquitlam. Doug e Terry affissero
annunci nei supermercati e in breve tutti i biglietti andarono esauriti. Con Betty
responsabile della serata raccolsero 3500 dollari.
Terry ritornò alla Cancer Society con la notizia della sua raccolta di fondi e con una
lettera:
Di correre sono in grado, a costo di strisciare a terra per le ultime miglia, ma ci sono
barriere che non posso superare da solo. Ho bisogno del vostro aiuto, della vostra
sponsorizzazione, che mi forniate i mezzi per mantenere me e un’altra persona che ha
acconsentito a mettere da parte questi cinque mesi per farmi da compagno e da
aiutante di campo. Avrà bisogno di raggiungere Newfoundland, di un camper o di un
mezzo simile che ci aspetti là, di denaro per cibo, benzina e altre necessità.
Ci serve il vostro aiuto. In tutto il mondo, chi è ricoverato negli ospedali per il cancro
ha bisogno di persone che credono nei miracoli. Non sono un sognatore, e non voglio
dire che questo renderà possibile trovare una qualsiasi risposta definitiva o cura per il
cancro, però credo nei miracoli. Devo farlo.
I RAPPRESENTANTI della Cncer Society of Canada accordarono a Terry il loro
generoso supporto. Gli chiesero anche di sottoporsi a regolari check-up medici durante
la corsa, e gli proposero uno slogan che sarebbe divenuto popolarissimo: Maratona della
Speranza.
Quando Blair, MacKenzie e Ron Calhoun (responsabile nazionale degli gli eventi
speciali per l’associazione) incontrarono Terry a Vancouver in marzo per comunicargli
la loro decisione, Terry disse semplicemente: «Accidenti, grazie. Grazie mille.»
Calhoun commentò: «Credo proprio che se lo aspettasse da noi. Si aspetta dagli altri
quello che si aspetta da se stesso.»
Terry pianificò sulla carta il suo viaggio attraverso il Canada e calcolò i tempi: sperando
in una media di 30 miglia al giorno, avrebbe coperto le 5300 miglia in cinque o sei
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mesi. Pensava di correre da St John’s, in Nuova Scozia, fino all’estremo occidentale dei
territori della British Columbia, di prendere il traghetto fino all’isola di Vancouver e di
correre fino al versante ovest, poi di tornare a Vancouver e correre dal traghetto al
municipio in finale trionfante. Il compito che Terry si prefiggeva, correndo su una sola
gamba, equivaleva a correre una maratona ogni giorno per quasi metà di un anno,
affrontando ogni mattino il genere di corsa che i maratoneti professionisti intraprendono
solo tre o quattro volte l’anno. Non dubitò mai, nemmeno per un momento, di riuscire a
farcela.
La Ford gli mise a disposizione un camper che sarebbe stato trasportato a
Newfoundland, e la Funcraft Vehicles lo equipaggiò all’interno secondo le indicazioni
di Terry.
La Adidas fornì scarpe e abbigliamento da corsa. La catena alberghiera Four Seasons
offrì sistemazione gratuita in tutti i suoi alberghi, mentre la Safeway donò 500 dollari e
buoni per il cibo nei suoi punti vendita. La War Amputations of Canada accettò di
coprire gratuitamente le riparazioni all’arto artificiale durante il percorso. La Imperial
Oil contribuì con 500 dollari alle spese per la benzina. La Pacific Western Airlines
regalò i voli per Winnipeg, e un donatore privato pagò la tariffa per il resto del viaggio.
Terry completò il suo terzo anno di università e insieme a Doug, circondato da mappe,
elaborò i dettagli. E ogni giorno correva. Prima del 10 aprile, quando lui e Doug
partirono all’aeroporto internazionale di Vancouver, aveva già completato 3159 miglia
di allenamento sulla gamba artificiale. Era in forma e impaziente di affrontare quella
spaventosa sfida.
Il primo ostacolo
ALLE QUINDICI DEL 12 aprile, un sabato ventoso e coperto, Terry Fox intinse la
punta del suo piede artificiale nelle scure acque del porto di St John’s per segnare
l’inizio della corsa, e promise di ripetere il gesto quando avesse raggiunto la costa del
Pacifico. Oltre a questo affidò alle cure di Doug una brocca piena d’acqua
dell’Atlantico: alla fine del viaggio l’avrebbero versata nel Pacifico, unendo
simbolicamente i due oceani.
Era in t-shirt e pantaloncini da corsa, malgrado tutti quelli che si erano raccolti per
vederlo partire fossero stretti nelle giacche a vento per il gelido vento dell’Atlantico.
Non era una giornata che risollevava il morale, ma quando Terry corse su per la collina
del municipio fino al miglio zero della Trans-Canada Highway era ottimista e risoluto.
Dalla collina poteva vedere sventolare la bandiera della Cancer Society Caduceus:
aprile era il mese della campagna per la lotta contro il cancro in tutto il Canada. Su
richiesta del sindaco Dorothy Wyatt, la bandiera sarebbe rimasta su finché Terry avesse
lasciato l’isola.
Gli abitanti di Newfoundland accolsero calorosamente Terry e invitarono lui e Doug
nelle loro abitazioni per pranzi fatti in casa.
Mentre correva, Terry fissava l’attenzione su un punto di riferimento davanti a lui: un
albero, una curva della strada, il camper in cui lo aspettava Doug, segnalando un altro
miglio percorso. Risoluto a non perdere nemmeno un metro di gara, ogni sera guardava
Doug segnare il punto di arresto con un sacchetto di plastica riempito di sassi. Trovando
le 30 miglia al giorno prestabilite troppo ambiziose, si assestò sulla lunghezza classica
delle maratone, 26 miglia.
Era in strada ogni mattina per le cinque. Non mangiava e non bevevo niente prima di
lanciarsi in una corsa di cinque miglia senza interruzioni. Solo alla fine bevevo succo di
pomodoro o acqua, mentre Doug guidava il camper fino alla fermata successiva; da quel
momento in poi procedeva di un miglio alla volta.
La pausa per la prima colazione era alle otto, in un ristorante se ce n’era uno nei paraggi
e se, come spesso capitava, il cibo era offerto gratuitamente. Il viaggio serviva per
raccogliere denaro, pensava Terry, e non per spenderlo, e a volte Doug faceva da
mangiare nel camper. «La sua cucina dà un significato nuovo alla parola “mediocre”»
gli disse un membro della Cancer Society in visita. Doug sorrise e si asciugò la
condensa dagli occhiali con la montatura in acciaio. La colazione tipica consisteva in
una doppia porzione di “French toast” o di “pancake”, un paio di “Danish roll”, due
ordinazioni di pane tostato, un frappè al cioccolato, coca cola, budino di riso, fagioli.
Terry aveva scoperto che correva meglio, con una dieta ricca di carboidrati.
Dormiva fino alle undici mentre Doug andava a comprare il cibo, faceva benzina o
andava in lavanderia. Poi si rimetteva in strada fino a più o meno le cinque,
snocciolando 25 o 26 miglia, a volte meno quando i venti erano forti. Alla fine di ogni
miglio guardava Doug segnare la distanza percorsa sulla mappa. Diventò un rito.
Il secondo e ultimo pasto della giornata era quasi sempre una replica del primo, solo
molto più abbondante. Nei ristoranti, la gente restava impressionata dalla quantità di
riso, pasta, coca cola e dolci che Terry riusciva a ingerire. Ciononostante perse più di 3
kg, che ha stabilmente mantenuto da allora in poi.
Spesso venivano invitati a dormire in case private, ma Terry era restio a scombussolare
una famiglia alzandosi alle quattro del mattino e andando a letto alle otto. Sapeva che se
non avesse dormito bene non sarebbe riuscito a correre al meglio il giorno successivo.
Quando erano invitati a passare la notte gratuitamente in un motel accettavano
soddisfatti, altrimenti si rannicchiavano nei sacchi a pelo nel camper.
Gli abitanti di Newfoundland seguivano l’avanzare di Terry attraverso gli articoli dei
giornali e i servizi alla radio. Correvano fuori dalle case per vederlo passare, fremendo
alla vista della sua corsa faticosa e sconnessa e dell’espressione contorta sul suo volto. E
spedivano soldi alla Cancer Society in suo nome.
Terry aveva sempre saputo di poter portare a termine la corsa, quello che non sapeva era
in che misura la protesi avrebbe sopportato quell’incessante bombardamento
giornaliero. Il 28 aprile, a Deer Lake, la giuntura del ginocchio cedette. Terry chiamò la
War Amputations of Canada di Ottawa, dove il personale contattò un protesista di New
Brunswick che si offrì di riparare la gamba gratuitamente. La protesi fu spedita a
Fredericton e Terry continuò a correre con un arto di riserva, finché il suo gli venne
restituito due giorni dopo.
Entrando a Corner Brook Terry corse per 28 miglia, gli ultimi quattro in salita, e
raccolse 7000 dollari. Parlò a diversi gruppi di persone a Channel-Port aux Basques,
raccogliendo nella cittadina di 7000 anime 10.000 dollari. All’inizio aveva detto: «Se
solo potessimo avere un dollaro da ogni abitante del Canada…» Sarebbe stato possibile?
Il 6 maggio, 25 giorni e 580 miglia da St John’s, Terry e Doug si imbarcarono sul
traghetto per North Sydney, in Nuova Scozia. Con un’intera provincia già in tasca, il
primo grosso ostacolo era superato.
Giorno dopo giorno
IN NUOVA SCOZIA si era appena conclusa la campagna annuale di aprile per il
cancro, ma la gente rispose comunque alla Maratona della Speranza. Gli studenti di una
scuola professionale di Dartmouth raccolsero 2000 dollari in appena un giorno.
Fuori da North Sydney, Terry fu a un pelo dal disastro. Un furgone di ripresa della CBC
che gli viaggiava al fianco per filmarlo fu tamponato da un autosnodato da cinque
tonnellate, che trasportava 20 tonnellate di pesce. Per il conducente John Lewandowski
e il cameraman seduto al suo fianco l’impatto fu simile a un’esplosione. Senza
nemmeno rendersene conto avevano attraversato un fossato col furgone, finendo in
mezzo agli alberi. Il fonico Gord McNeill fu sbalzato fuori dal portellone posteriore.
«Se Terry si fosse trovato solo un metro più avanti» disse Lewandowski «sarebbe stato
investito.» Pur non avendo riportato ferite, Terry fu gravemente scioccato dal pericolo
che aveva corso, e si preoccupò per i feriti. Quella sera, invece di andare a letto alle otto
come al solito, andò al Northside General Hospital per far visita a McNeill, che
nell’incidente aveva riportato ferite alla schiena, e agli altri due uomini che avevano
riportato contusioni non gravi.
Non era il modo migliore per prepararsi alla dura corsa di due miglia e mezzo fino alla
cima della Kelly’s Mountain, fra North Sydney e Baddeck sulla Trans Canada Highway.
Al mattino, però, il tempo fu clemente – era una limpida giornata di sole – e Terry corse
senza problemi. «La discesa è stata più dura, ho frenato per tutto il tragitto» dichiarò.
Invece di tagliare dritto per la parte settentrionale della provincia, Terry optò per una
deviazione di 175 miglia fino ad Halifax, per informare più persone della corsa. Il
momento più bello per lui fu la visita dei suoi genitori, che lo raggiunsero nei pressi di
Dartmouth. Erano passate cinque settimane dall’ultima volta che i Fox avevano visto
loro figlio. «Fu atroce» dice Betty. «Stavo seduta in macchina e fissavo dritto avanti a
me. Non riuscivo proprio a guardarlo: le macchine gli schizzavano accanto a 65 miglia
all’ora, mancandolo di una ventina di centimetri. Ogni sera tornavo in albergo con la
nausea.»
Per loro non fu un bel momento, ma diede a Terry una spinta psicologica, e fu lieto di
averli con sé finchè superò Springhill il 23 maggio – il 971° miglio, a 41 giorni dalla
partenza. I membri della Cancer Society chiesero ai Fox di convincere Terry a rispettare
gli appuntamenti medici che gli avevano fissato, e che lui continuava a mancare. «Se
riuscissimo a convincerlo di qualsiasi cosa , non avrebbe mai iniziato la corsa» rispose
Betty.
In tutto il paese i canadesi cominciavano a prestare attenzione alla Maratona della
Speranza. Si preoccupavano. Dovrebbe farsi visitare da un medico, dicevano. La War
Amputations of Canada si disse preoccupata per gli effetti del continuo martellamento
sul moncone, ma Terry non voleva sentir parlare di visite mediche. «Nessun dottore
conoscerebbe la mia situazione, e adotterebbe senza dubbio un atteggiamento
pessimista» disse. «Se corressi dal dottore per ogni piccola cosa non sarei nemmeno
partito. Ma non preoccupatevi, quando avrò bisogno di un medico ve lo farò sapere.»
Per tutta la Nuova Scozia Terry non ebbe problemi con la gamba artificiale. La toglieva
di notte per dormire, ma la indossava di giorno quando riposava. Era al suo secondo
paio di scarpe da corsa.
Non c’era tempo per visitare i luoghi, ma solo per la strada davanti a lui, giorno dopo
giorno. «Sarebbe stato bello incontrare Darryl Stiller e Bobby Orr, i miei idoli
dell’hockey e il primo ministro Trudeau, e vedere la C.N. Tower a Toronto» disse Terry
a Bill Vigars, il trentaquattrenne che coordinava la campagna per la sede di Ontario
della Cancer Society. Vigars aveva telefonato a Terry in Nuova Scozia per discutere i
preparativi e assicurargli che la situazione sarebbe stata assai vivace, una volta giunti a
Toronto.
SUL TRAGHETTO che li portava all’Isola Prince Edward, Terry e Doug furono accolti dal
capitano, mentre gli uomini dell’equipaggio e i passeggeri facevano una colletta e raccoglievano più di 350 dollari.
Terry aveva già corso per 23 miglia quel giorno ma, su di morale com’era, ne fece altri
otto prima di fermarsi per la notte. Lungo le strade dell’isola, la gente usciva di casa per
vederlo. Un’anziana signora gli ficcò in mano un biglietto da cento dollari.
«Grazie,» disse lui. «Il mio amico le darà una ricevuta.» «Non voglio ricevute per
questo» disse lei.
Gli abitanti del New Brunswick offrirono a Terry un’accoglienza calorosa e rilassata. A
Cap-Pelé, una comunità di pescatori afflitta da una forte disoccupazione, alcune persone
offrirono l’ultimo dollaro che avevano nel portafoglio. Quelli di Petitcodiac pagarono
dieci dollari un biglietto per partecipare a un banchetto comunitario e vi portarono la
loro roba da mangiare. Raccolsero in tutto 1200 dollari.
Il 13 giugno, Terry aveva superato 1537 miglia. Da quando era entrato nel New
Brunswick nove giorni prima, aveva corso nei giorni caldi, nei giorni freddi e sotto la
pioggia.
Coprì la sua tenuta da corsa con una mantellina impermeabile, ma nulla poteva impedire
che l’umidità e il sudore s’infiltrassero nell’alloggiamento della gamba artificiale
provocando frizione. Ogni tanto abbassava la mano per rilasciare la valvola e togliere
l’umidità.
Il diciottenne, biondo e disinvolto fratello di Terry, Darrell, si unì alla squadra a Saint
John. Il buon umore di Darrell rialzò il morale a Terry e il suo aiuto tolse un bel po’ di
peso dalle spalle di Doug. Il quale, sempre quieto e schivo, evitava i giornalisti ogni
volta che poteva. Darrell aiutava molto rispondendo lui all’affetto della folla radunata
per vedere la corsa.
Di nuovo il ginocchio artificiale provocava dei problemi. Un funzionario della Società
del cancro portò la gamba a Fredericton per riparazioni e la riportò il giorno dopo.
Mentre la gamba non c’era, quella di riserva usata da Terry si ruppe, e così un pilota del
Moncton Flying Club la portò a far riparare gratis. Così già la sera dopo Terry si ritrovò
con gli arti artificiali in buone condizioni. A Edmundston, Bill Vigars arrivò da Toronto
per incontrare la squadra. Nevicava e faceva freddo. Come gli altri che avevano
osservato Terry, anche Bill rimase scosso dall’impatto emotivo nel vedere
quell’andatura goffa e penosa. «Mi pareva quasi di sentirmi il dolore in corpo» dice.
«Non so proprio come potesse resistere.»
Il grande benvenuto di Toronto
GIUNTO NEL Quebec a metà giugno, Terry trovò giornate fredde, ventose e piovose,
e, data la scarsa pubblicità, molti non erano informati della corsa. La polizia provinciale
del Quebec, temendo incidenti nel forte traffico durante il periodo delle feste di San
Giovanni Battista, ordinò che il furgone-camper uscisse dalla strada principale. Terry
corse su strade secondarie tranne in un punto dove la deviazione avrebbe allungato di 10
miglia una corsa di 15. Qui entrò nella strada principale nelle prime ore del mattino
prima che cominciasse il traffico, e fece quelle 15 miglia senza farsi fermare, mentre
Doug cercava abilmente dei nascondigli per il furgone fra gli alberi di fianco alla strada.
Più a sud, c’era più gente al corrente della Maratona e così ci furono ricevimenti a Ste-
Foy e a Drummondville, e anche una festa serale a St. Hyacinthe. A Montreal, Don
Sweet, ex giocatore della squadra di football Alouette, corse con Terry lungo la Via
Sherbrooke fino al municipio dove ci fu una gran festa di benvenuto col sindaco Jean
Drapeau.
Per la prima volta Terry ebbe un problema di tempi. Per arrivare a Ottawa per
l’anniversario di fondazione del Canada il 1° luglio, doveva fare una pausa. E fu molto
irritato per il ritardo. «Potrebbe scombussolarmi il ritmo» diceva. Acconsentì a fare un
giro turistico per Montreal ma riprese la corsa il giorno dopo.
Nell’Ontaria, La Società del Cancro aveva fatto un’ottima pubblicità, e la stampa
seguiva tutte le mosse di Terry. La Polizia provinciale dell’Ontario lo fece scortare da
una vettura di servizio, che lo seguiva a ruota quasi al centro delle vie, con le luci rosse
lampeggianti sul tetto. «Continuate così, e potrete vedere i tacchi delle mie scarpe sopra
il cofano della vostra macchina» suggeriva Terry. Temendo che gli automobilisti
impazienti potessero essere tentati di mettercisi loro alle calcagna di Terry, l’autista
della macchina della polizia gli si avvicinava subito se qualcuno si precipitava da dietro.
Come al solito Doug guidò il furgone avanti di un miglio e lo parcheggiò, e Bill Vigars,
che era diventato un membro permanente del gruppo al confine dell’Ontario, guidava
dietro la macchina della polizia in una vettura della Società del cancro.
Terry arrivò ad Ottawa il giorno prima delle feste per l’anniversario della capitale,
giusto in orario. Corse lungo le curve vie fiancheggiate dagli alberi del prestigioso
distretto di Rockliffe, e su per il viale d’accesso alla residenza del governatore generale,
dove lo aspettava il ricevimento di benvenuto. Quella sera banchettò con Jim Brown e
Garth Walker, che si erano fatti in bicicletta le quasi 301 miglia da Toronto in 23 ore e
30 minuti per attirare l’attenzione sull’impresa di Terry. Raccolsero oltre 50.000 dollari.
Il pomeriggio seguente Terry doveva dare il calcio d’inizio di una partita di football
amichevole al Lansdowne Park. Aveva paura di scivolare sul prato artificiale e non
sapeva quale gamba usare. Con Bill Vigars visitò lo stadio mentre le squadre si stavano
allenando. Non poterono scendere in campo a far pratica, ma presero in prestito una
palla e andarono in un’arena col pavimento di cemento sotto le tribune. Era al buio
tranne una fioca luce alle due estremità, e questo aumentava le apprensioni di Terry.
«Forse non dovrei nemmeno provarci» disse a malincuore a Bill.
Usando la sua gamba artificiale, poté appena smuovere la palla. «Be’, sarà meglio
provare in un altro modo» borbottò. Tenendosi in equilibrio sulla gamba artificiale,
sferrò un calcio col piede sinistro sano. Funzionò meglio.
Durante la giornata la radio aveva annunciato che Terry avrebbe dato il calcio d’inizio
alle due del pomeriggio. Mentre si avvicinava al campo, un tifoso lo vide e cominciò ad
applaudire. Si sparse subito la voce e quando Terry arrivò al centro del campo la folla
era tutta in piedi. Terry poggiò fermamente il piede artificiale sul verde tappeto erboso,
diede un calcio e spedì la palla a 15 metri di distanza. Uscì fra gli applausi della folla, e
poi si unì aio tifosi per assistere alla partita.
L’indomani incontrò il primo ministro Trudeau alla Camera dei Comuni. E poi tornò a
quel che doveva fare, come al solito.
CORRENDO A OVEST verso Toronto, Terry trovò feste di benvenuto in ogni località.
Con la temperatura sempre più calda, doveva limitarsi a fare una ventina di miglia al
giorno. Un uomo fra la folla, ammirando la tenacia di Terry, gli chiese come facesse a
resistere tanto. E lui «È molto meno del dolore di avere il cancro. E poi io posso
smettere quando voglio. Non che abbia intenzione di farlo. Ma quelli che hanno un
tumore non possono lasciarlo mai.»
Pur avendo sperato che tanta gente sostenesse la sua corsa, non smetteva di
meravigliarsi di vedere tante persone lungo la strada, che aspettavano di vederlo passare
e offrivano contributi in denaro. Vicino a Perth, sulla strada n. 7, il conducente di un
autobus Voyageur vide Terry. Gli corse mezzo miglio avanti e si fermò per fare una
colletta fra i suoi passeggeri. Terry corse al finestrino e infilò dentro la testa per una
chiacchierata. «Grazie amici» disse e proseguì.
Ma Terry cominciava a stancarsi. Vicino a Peterborough, gli venne un mal di stomaco e
si riposò per alcune ore in una casa rurale vecchia di secoli. A Oshawa, i bambini
dell’albergo lo tennero sveglio correndo su e giù per i corridoi. Non potendo dormire,
lui si rigirava nel letto, alzandosi al mattino ancora stanco e infastidito.
Quel giorno, 9 luglio, cominciò tiepido. Era un giorno speciale per Terry, ma lui non lo
sapeva. Il giornale Toronto Star aveva fatto venire in aereo i signori Fox per una visita a
sorpresa. Dovevano arrivare proprio quel giorno e Terry disse che non ce l’avrebbe più
fatta a proseguire. In un angolo di via al centro di Oshawa, mamma Betty e papà Rolly
Fox stavano fra la folla degli spettatori. Quando Betty vide venire suo figlio Terry, si
fece avanti, ma lui non la vide. Concentrandosi, cercando di vincere la fatica, continuò a
correre finché non si trovò a meno di tre metri di distanza. E poi all’improvviso vide sua
madre. Alzò la testa e, senza nemmeno fermarsi, corse fra le sue braccia, abbozzando un
grande sorriso. Betty piangeva e continuava ad abbracciarlo e piangeva ancora. Poi si
voltarono e anche papà Rolly si fece avanti, abbracciando forte suo figlio.
Terry aveva telefonato a casa puntualmente ogni giovedì fin dal principio, ma questa era
la prima visita faccia a faccia dei suoi genitori da maggio. E avevano un milione di
domande da fare. Come stava? Si sentiva bene con la gamba? Era troppo stanco? Le
stesse domande, appena mezz’ora prima, avrebbero ottenuto una ben diversa risposta,
ma adesso Terry, tornato su di morale, invitò i suoi in una vicina pasticceria dove, tra un
boccone e l’altro, parlò a profusione.
L’AVVERTIMENTO dato a Terry che a Toronto lo avrebbe aspettato una grande
eccitazione non era affatto esagerato. La folla si accalcava sui marciapiedi. Mentre
Terry correva davanti a una chiesa, i partecipanti a una cerimonia nuziale si unirono ai
festeggiamenti. Il pastore officiante, la sposa e lo sposo e tutti gli invitati offrirono soldi
e fecero fotografie a Terry. Sulla affollata via Danforth, le donne correvano fuori dalle
botteghe dei parrucchieri con gli asciugamani avvolti intorno alla testa, per vedere Terry
e mettere soldi nelle mani dei volontari della Società del cancro. Un uomo si svuotò le
tasche, letteralmente, e poi dovette chiedere a un volontario i 60 cents per poter tornare
a casa con la metropolitana. Le T-shirt bianco-rosse della Terry Fox Marathon, che si
vendevano a 5 dollari l’una, cominciavano a sembrare vere e proprie uniformi, via via
che sempre più persone le compravano e se le mettevano addosso.
Tutti i preparativi che Terry aveva chiesto di fare a Toronto erano stati fatti. Incontrò e
parlò con Orr a un ricevimento serale, ma quando chiese a Bill Vigars notizie di Sittler,
Bill gli disse che a quanto pareva quel campione di hockey non avrebbe potuto venire.
Terry rimase visibilmente deluso. Bill ridacchiò tra sé. Sapeva che nessun altro
appuntamento avrebbe potuto impedire a Sittler di vedere il giovane di cui aveva
seguito i progressi fin da aprile.
In albergo, mentre Terry si concedeva una pausa dopo la prima colazione, Bill sorprese
Sittler nell’atrio e gli spiegò lo scherzo. Sittler si mise una T-shirt e i pantaloncini rossi
e andò nella camera di Terry dov’era in corso una riunione di famiglia. Aprì la porta e
disse: «C’è nessuno che voglia fare una corsa?» Il viso di Terry si illuminò «Ti dico che
è stato bello» disse Bill Vigars.
Durante il suo soggiorno a Toronto, Terry lanciò la palla d’apertura della partita di
baseball fra i Blue Jays e i Cleveland Indians allo Exhibition Stadium, andò in volo alle
cascate del Niagara e visitò la CN Tower per un banchetto. In seguito, in un luna-park
tutti i componenti della squadra salirono sulle automobiline dell’autoscontro
rincorrendosi entusiasticamente a vicenda. Terry gridò a un tratto: «Ehi, devo fermarmi!
Mi si è staccata la gamba!» Mentre si allontanava saltellando, si trovò subito circondato
da persone che gli chiedevano autografi e gli facevano gli auguri.
Ma la grande occasione a Toronto fu il ricevimento dell’11 luglio in piazza Nathan
Phillips, inaugurato dalle cornamuse degli Highlanders scozzesi. Diecimila persone
ascoltarono il discorsetto di Terry, che portava la maglia n. 27 di Darryl Sittler. E poi
offrirono ben 40.000 dollari. Migliaia di firme furono apposte a un enorme telegramma,
chiamato Terry-o-gram. «Quando ci ritrovammo in quella grande piazza» disse Betty
Fox «con migliaia di persone intorno a noi, stentavo a credere che si stava facendo tutto
quanto per mio figlio Terry.»
Fu una giornata felice. Durante un’intervista a radio CKFM di Toronto, fu chiesto a
Terry: «Non si preoccupa del fatto che la gente non provi
pietà per lei?» Terry rispose: «Se qualcuno si
impietosisse di me…vorrebbe dire che io non ho saputo
trasmettere bene il mio messaggio e che la gente non
capisce quello che sto facendo. Perché non c’è nessuno
più felice di quanto sia io adesso.»
A metà strada
MENTRE SI AVVIAVA a ovest da Toronto, un enorme
cartello con su scritto TERRY FOX si illuminò in cima
alla CN Tower. La gente affollava il Lakeshore
Boulevard su 10 o 12 file, applaudendo Terry che si
avvicinava e poi subito ammutolendo con le lacrime agli
occhi mentre lui passava via. La sua faticosa ed
evidentemente penosa corsa rivelava chiaramente
l’enormità del compito che si era imposto.
Da Toronto la strada più diretta per le rive rocciose del
Lago Superiore sarebbe stata a nord verso Barrie. Ma
Terry aveva deciso di fare una deviazione che gli
sarebbe costata quasi 300 miglia in più di corsa ma che
gli avrebbe permesso di passare da centri molto popolati come Hamilton, Woodstock e
London, e poi fino a Kitchener, Guelph e Georgetown, prima di tornare verso nord.
L’umidità e il caldo opprimente dell’Ontario meridionale, insieme ai ricevimenti serali
che lo svuotavano di energia, logoravano Terry. Cominciava a irritarsi. E per giunta
aveva dei guai con la protesi.
La Società del cancro mandò Ben Speicher in volo a London per aiutarlo. Con qualche
difficoltà Speicher convinse Terry che una mezza giornata di riposo sarebbe stato un
buon investimento. Speicher vedeva che Terry aveva guadagnato cinque centimetri di
muscolo nella coscia, il moncone si era ristretto di quasi quattro centimetri e stava
sprofondando nell’alloggiamento.
Il protesista fece accurate misurazioni e fece un alloggiamento più ristretto, mentre
Terry, impaziente di rimettersi in cammino, stava già correndo di nuovo con l’arto di
riserva. Di fianco alla strada vicino a St. Mary, Speicher si mise al passo con lui e cercò
di controllare la situazione. «Quando arrivai con il nuovo alloggiamento, non potei
convincere Terry a fermarsi per più di 15 minuti» dice Speicher. «Si mise
semplicemente l’arto e disse: “Oh, me lo sento benissimo.” E via di nuovo.»
Un piccolo punto di attrito, sistemato l’indomani da un protesista locale, provocava un
po’ di sanguinamento e i giornali ne parlarono con rilievo. «Bastava la minima
imperfezione per provocare un guaio» dice Speicher. «Lui non aveva voluto darmi il
tempo di controllare.»
Nonostante questo inconveniente, Terry riusciva ancora a scherzare. Durante la pausa
per la prima colazione, il figlio di otto anni di Bill Vigars, Patrick, chiese: «Facci vedere
come funziona la tua gamba, Terry!»
«Sicuro» disse Terry con un ghigno sporgendo in fuori la sua gamba sana. Patrick corse
via, sghignazzando. Avevano già recitato prima quella scenetta.
Oltre Barrie le giornate si facevano piacevolmente fresche. Mentre il benvenuto era
sempre molto caloroso, i centri popolati erano più lontani e così Terry poté darsi un
ritmo più soddisfacente. Dopo Sandbury, una madre e un padre indiani coi loro due
bambini corsero accanto a lui su di una strada parallela. Dopo poche miglia,
accelerarono e lo sorpassarono. A Terry vennero le lacrime agli occhi quando quel
padre gli spiegò che lui e sua moglie volevano che i loro figlioli si immedesimassero
con la corsa di Terry in maniera reale; e pensavano che dovessero correre con lui
almeno per un po’ affinché tutto avesse un vero significato.
Lungo le tranquille strade del Canadian Shield, Terry fece buoni progressi. Gli
piacevano le ore mattutine per correre, cominciando prima dell’alba quando l’aria era
fresca e chiara. Come faceva fin dal principio, puntava la propria attenzione
sull’obbiettivo immediato piuttosto che sulla meta finale dell’Oceano Pacifico. Solo
ogni tanto, nei giorni brutti, pensava alla fine della corsa. «Quando mi fa male la
gamba» disse a Bill Vigars «immagino a volte di correre attraverso lo Stanley Park e mi
par di vedere l’oceano poco più avanti.»
Un punto importante lo aspettava, quello di metà percorso al Miglio 2650. Venti miglia
fuori di Sudbury, la squadra si rese conto che il contamiglia era difettoso e che il punto
di metà strada era stato superato il giorno prima a French River. Fu un motivo di
disappunto per Terry. «Perché diavolo glielo ha detto, Doug?» chiese Vigars. Ma
sapevano entrambi che Terry, personalmente aperto e sincero, non avrebbe accettato
nulla che non fosse la verità da chiunque altro.
Ad Iron Bridge, arrivò un regalo per Terry: l’uso di una roulotte con tanto di bagno e
aria condizionata, fornita dal complesso Pattison di Vancouver e dalla General Motors
del Canada. Venne chiamato «l’albergo viaggiante di Terry». Soddisfaceva in pieno le
esigenze di Terry e lui spesso preferiva dormire lì dentro piuttosto che in un vero
albergo anche se gli altri andavano a passare la notte in qualche località vicina.
«Dovevamo essere come chiocce» dice Vigars. «La gente del posto ci indicava dove
potevamo trovare una strada tranquilla. E allora facevamo in modo che Terry ci si
sistemasse ben bene, prima di andarcene.»
A Sault Ste. Marie, la gente affollava I marciapiedi, stringendo in pugno I soldi da
offrire. Bill Vigars notò che quelle banconote erano sempre spiegazzate. «Era per la
commozione, suppongo. Se le arrotolavano in mano.» C’erano banconote di tutte le
taglie e anche monetine di ogni misura estratte da pittoreschi salvadanai. Rincuorato da
tanta generosità, Terry fece due miglia in più delle sue solite 26.
Quella sera in un ricevimento in Municipio, ripeté di nuovo la sua storia. Con un
canadese su cinque che contraeva una qualche forma di cancro nel corso della sua vita,
non c’era nessuno in quella folla che non potesse identificare Terry con un qualche
familiare, nipote, figlio, fratello, fidanzato. Tutti osservavano e ascoltavano, in silenzio,
finché una ragazza minuta, stringendo un mazzo di fiori e un assegno per Terry si
avvicinò timidamente. Lui si chinò a baciarle la guancia mentre la folla applaudiva.
Quando Terry lasciò il palco, erano stati raccolti 1400 dollari nello spazio di 15 minuti.
Per tutto il settentrione, la gente mise in guardia Terry dall’arduo pendio di tre miglia al
Montreal River Harbour. A Sault Ste. Marie gli fu data una T-shirt con sopra le parole:
«Montreal River Harbour, devo batterti.»
Il mattino che affrontò la salita, aveva indosso la T-shirt. Doug programmò una pausa a
metà salita e tutto il gruppo rimase in attesa, osservandolo. Terry si fermò per un istante
e poi proseguì. Gli altri saltarono in fretta sul furgone e lo sorpassarono per andare ad
aspettarlo in cima al colle. A dieci metri dalla cima Terry gridò: «Era tutto qui?»
«Sì» fece Bill «e tu lo hai battuto.»
Terry gli strinse la mano e proseguì nella corsa. «Mi ero davvero concentrato
psicologicamente per quella salita» disse. «Mi ha fatto dolere forte il braccio destro,
però, quando ho dovuto sollevarlo per darmi lo slancio per portar su la mia gamba
artificiale. Non avevo più fatto di corsa una salita come questa dopo Capo Breton. Ero
fuori allenamento.»
Appena fuori White River, a Terry cominciò a dolere la caviglia. Era arrivato suo zio
Rod e gli stava facendo domande sul viaggio, quando Doug gli portò un sacchetto di
ghiaccio. Mentre stavano seduti a chiacchierare, Terry si passò il ghiaccio sulla gamba.
«Notai un guizzo nei suoi occhi» dice Rod Fox. «Capii che voleva farsi gioco di me ma
pensavo che fosse per quelle mie domande. Poi mi resi conto di cosa stava accadendo.
Si passava il ghiaccio sulla gamba artificiale e aspettava che io me ne accorgessi.
“Imbroglione” gli dissi. “Non hai perso l’abitudine di prendermi in giro.”»
Tre giorni dopo, Terry chiese che un medico lo aspettasse sulla strada. I funzionari della
Società del cancro riuscirono a convincerlo che non si poteva fare una diagnosi
appropriata del suo disturbo alla caviglia senza le attrezzature di un ospedale. E così
acconsentì a farsi portare in volo a Sault Marie dove uno specialista ortopedico poteva
curarlo. I medici gli diagnosticarono una tendinite, e gli ordinarono riposo completo per
due giorni. Terry approfittò di questa pausa per aggiornare il diario che aveva iniziato a
Terra Nova. Quarantotto ore dopo, era di nuovo in strada.
Vicino a Terrace Bay, Terry passò una felice serata con Greg Scott, un ragazzino di
dieci anni che aveva perso la gamba sinistra da pochi mesi per un cancro osseo. I due si
erano conosciuti prima a Hamilton dove Greg aveva visto correre Terry. Seguendone
l’esempio, il ragazzino l’indomani fece il primo tentativo di correre con una gamba
artificiale.
Terry si era tenuto in contatto con Greg e con i suoi familiari e adesso uscirono a
pranzare insieme. Sulla via del ritorno Greg volle fare una nuotata nel vicino lago
Jackfish. I due amici immersero la loro gamba artificiale nell’acqua. «Me la sento bene»
disse Terry. E Greg: «Sì, l’acqua è calda.» Dopo, al tramonto, Terry vide il ragazzino
che rabbrividiva sulla sabbia, con la gamba artificiale accanto a lui, e la testa divenuta
calva in seguito alla chemioterapia. «Ecco perché faccio quello che faccio» disse Terry
energicamente. «I ragazzini come lui non dovrebbero fare queste brutte esperienze.» A
un giornalista della televisione disse più tardi: «Greg è un vero combattente. Quando mi
sento giù di morale o stanco, penso semplicemente a lui e ritrovo la forza per andare
avanti.»
Al termine di una corsa di 26 miglia al Little Gravel River, i giornalisti televisivi di
Winnipeg aspettavano per intervistare Terry. Arrivò anche un amico, con un album di
ritagli di giornale. Dopo aver concordato coi giornalisti di fare l’intervista dopo un
breve riposo, Terry scomparve nel furgone, con in mano l’album. Pochi istanti dopo ne
saltò fuori sbattendo la porta. Indicando con l’indice uno di quei ritagli, gridò: «Avete
visto questo?» Un giornalista aveva scritto che Terry aveva corso solo per 150 delle 700
miglia della penisola di Gaspe a Montreal, e che aveva fatto il resto sul furgone-camper.
∗Era un insulto che non poteva tollerare.
Rifiutandosi di lasciarsi calmare, chiese che qualcuno lo facesse parlare con quel
giornalista al telefono. E quando questi fu in linea, Terry gli gridò: «Tutto il dolore che
ho patito, tutte le miglia che mi sono fatto non conteranno nulla se voi poi mettete
questa roba sui giornali. Non è nemmeno venuto a vedermi correre, non lo sa
nemmeno.» Esausto riattaccò il telefono e si mise a piangere. «Se è così che la pensano,
tanto vale che io la pianti» disse.
John Robertson, un veterano con vent’anni di giornalismo sportivo all’attivo, ospite
dello show televisivo «24 ore», mise la mano sulla spalla di Terry e gli disse con calma:
«Quello che dice una persona non significa nulla in confronto ai milioni di persone che
lei ha aiutato e che credono in lei. Non lasci che una disinformazione isolata le faccia
scordare tutto questo.»
Correndo a sudovest verso Thunder Bay il 29 agosto, Terry cominciava a sentire una
certa rigidità nel torace e aveva una tosse irritante. Temeva di essersi buscato un
raffreddore. Rinunciò a un ricevimento in programma per quella sera, mandando Doug e
Darrell al suo posto. L’indomani si sentiva meglio e fece una ventina di miglia. Il lunedì
quando Terry si svegliò, il cielo era coperto. Corse sotto una pioggia intermittente per
tutta la mattinata, ma aveva difficoltà a respirare e sentiva dolore.
C’era gente lungo le strade e lui continuava a correre. Al 12° miglio si fermò per la sua
solita pausa mattutina di tre ore. Nel pomeriggio, si fece altre otto miglia e riposò per 15
minuti. Si avviò di nuovo ma non poté fare più di un miglio. Esausto, raggiunse
faticosamente il furgone e ci salì. Fu allora che chiese a Doug di portarlo da un medico.
Doug lo portò in macchina all’albergo Port Arthur e fece una telefonata a Geoff Davis,
un medico alto e occhialuto, che presta servizio come consulente per la filiale di
Thunder Bay East della Società del cancro. Quando il dottore arrivò nella sua stanza
d’albergo, Terry gli chiese subito: «È tornato il mio cancro?»
∗La notizia venne in seguito ritrattata.
Preoccupato, il dottor Davis esaminò brevemente Terry e disse che avrebbe dovuto fare
una radiografia. Scesero discretamente la scala posteriore fino alla macchina del dottore
e andarono all’ospedale di Port Arthur, dove Terry fu visitato a fondo di nuovo dal
dottor Davis e dai suoi colleghi Pearson e Hargan. Fu sistemato in una camera sulla
Four East. Alle cinque del pomeriggio i medici convennero che tutti i segni indicavano
la presenza di un cancro secondario nei polmoni di Terry, ma predisposero ulteriori
analisi per l’indomani.
Fu deciso di annunciare che Terry aveva l’influenza, almeno finché i suoi genitori non
fossero stati avvertiti. Rolly e Betty Fox giunsero a Thunder Bay alle sette del mattino.
Quando arrivarono all’ospedale, erano in corso altre analisi. Insieme a Doug, a Darrell e
a Bill, attesero nella sala d’aspetto al quarto piano. Alle dieci e mezza del mattino
un’infermiera venne per portarli dal dottor Davis.
C’erano cattive notizie. La radiografia aveva confermato che il cancro di Terry si era
diffuso ai polmoni. Doveva tornare subito a New Westminster per le cure. I signori Fox,
pallidi e con le lacrime agli occhi, rimasero seduti col loro figlio nella stanza pitturata di
verde, con le tendine a quadretti alla finestra sventolanti alla tenue brezza. Il brutto
tempo del giorno prima aveva lascito il posto a un bel sole.
Si provvide frettolosamente a far partire Terry e i suoi genitori per Vancouve su un
aereo della Learjet. Terry voleva parlare coi giornalisti in attesa, ma fuori dall’ospedale
svenne e dovette essere riportato dentro.
Più tardi i giornalisti furono invitati alla Amethyst House, un edificio dall’altra parte
della via dove potevano soggiornare i pazienti venuti da fuori città. «Andrò lì a parlare
con loro» disse Terry.
Ma i medici non gliene diedero il permesso; Terry fu portato in barella su un’ambulanza
che percorse i 15 metri per attraversare la strada. Qui gli addetti all’ambulanza non
riuscirono a far scendere la barella giù per la scala fino alla stanza delle riunioni e così i
giornalisti si radunarono sul marciapiede.
Il viso abbronzato di Terry contrastava in modo stridente col cuscino bianco sulla
barella. «Volete farmi domande o devo solo parlare io?» In silenzio, i giornalisti gli
indicarono che doveva semplicemente parlare lui.
«È stato un incredibile shock. Voglio dire, mi andava magnificamente, facevo 26 miglia
al giorno, ogni giorno, su per quelle colline.» Il viso di Terry si contorse e la sua voce si
spezzò. «adesso devo davvero tornare a casa per fare altre cure. Farò del mio meglio. Mi
batterò. Prometto che non mi darò per vinto.» In silenzio, con un groppo in gola, i
giornalisti guardavano mentre Terry veniva riportato sull’ambulanza per la trasferta
all’aeroporto. Un fotografo che scattava foto si fermò subito quando Betty Fox indicò
con un gesto che ne erano già state fatte abbastanza.
«Anche se non può più tornare a correre» disse Doug Alward «ha già vinto la
maratona.»
I sogni si avverano se…
MENTRE GUARDAVA il Learjet alzarsi in volo, Bill Vigars disse tristemente: «Il film
non doveva finire così.» Erano le 16:40 del 2 settembre, 144 giorni dopo l’inizio della
corsa.
Durante il volo, Betty Fox e il dottor Davis parlarono di Terry, della sua infanzia e delle
sue speranze di poter fare qualcosa per i disabili della Columbia Britannica. «E non solo
per i malati di cancro» disse Betty «ma anche per i malati di poliomielite e di qualsiasi
altra grave malattia.» Pianse per un po’, e poi guardò Terry che dormiva.
Rolly Fox guardava fuori dal finestrino dell’aereo, senza parlare, senza speranza. Poi
disse, stringendo i pugni: «Non è giusto, no, non è giusto.» Terry aprì gli occhi . «No
papà» disse. «È così che va il cancro. Non sono il solo, capita in continuazione ad altre
persone. E io non sono speciale.»
Il Learjet atterrò vicino a un hangar poco usato all’aeroporto internazionale di
Vancouver, e il dottor Davis controllò il trasporto di Terry al Royal Columbian Hospital
di New Westminster. Qui conferì brevemente con altri medici, salutò Terry e i suoi, e
ritornò all’aeroporto. Aveva ancora in mente quello che gli aveva detto Terry
nell’ambulanza: «Mi sento come se avessi vissuto una vita intera. Ne ho passate tante, e
mi sento emotivamente esausto.»
L’indomani, i medici iniziarono una serie di test per determinare in che misura si fosse
esteso il tumore di Terry. Emisero dei cauti comunicati e, quando il centralino
dell’ospedale fu tempestato di telefonate, lanciarono un appello pubblico: «Per favore,
non telefonate più.»
In risposta a tutti quelli che avevano visto correre Terry e temevano che avesse
aggravato il suo male con il ritmo troppo severo che si era imposto, il dottor Ladislav
Antonik, direttore clinico dell’ospedale, disse: «Non è assolutamente possibile che la
corsa abbia a che fare con il cancro secondario. È irrilevante e avrebbe potuto accadere
comunque.»
A Thunder Bay, Bill Vigars e altri funzionari della Società del cancro si apprestarono al
triste compito di sgombrare il furgone-camper e le due roulotte. Particolarmente
doloroso fu l’imballaggio degli arti artificiali di Terry.
Lettere da tutto il Canada, dagli Stati Uniti, dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa – da
dovunque era arrivata la notizia – piovvero a Port Coquitlam nella misura dai 15 ai 20
sacchi la settimana. Nello spazio di tre giorni la filiale della Società canadese del cancro
di Vancouver ricevette 230.000 lettere, la maggior parte delle quali contenevano assegni
o contanti.
In tutto il paese i cittadini si telefonavano tra loro per scambiarsi le loro dolorose
impressioni riguardo al ritorno in ospedale di Terry. «Non potevo crederci. Stavo
guidando la macchina quando udii la notizia alla radio e ho dovuto quasi fermarmi, ero
sconvolto.» «mi sono sentito come se si trattasse di un mio familiare.»
Il sindaco, Dorothy Wyatt, di St. John, che aveva fatto sventolare la bandiera della
Società del cancro sopra il Municipio finché Terry non aveva lasciato Terra Nova,
chiese che venisse issata di nuovo. «Finché la gente vedrà» disse «saprà che Terry va
bene.»
In tutto il Canada, la gente dimostrò che aveva capito e che voleva aiutare. Don
Cameron di Radio CKFM a Toronto parlò ai suoi ascoltatori della lotta di Terry col suo
vecchio nemico, e in quattro ore raccolse 11.000 dollari. I bambini allestirono ogni sorta
di iniziative benefiche nel vialetto di casa: raccolte di bottiglie, rappresentazioni teatrali,
vendite di beneficenza, serate di bingo, gare di corsa, di nuoto, di ciclismo e regate. A
Toronto la rete televisiva CTV decise che, siccome Terry aveva dovuto abbandonare la
corsa al Miglio 3339, avrebbe intrapreso il percorso fino al Miglio 3340 al posto suo,
nel miglior modo possibile, e ciè ingaggiando famose personalità per uno show di
quattro ore intitolato «Un saluto a Terry Fox». I telespettatori di tutto il paese avrebbero
telefonato impegnandosi a fare offerte.
Celebrità che per le loro comparse in pubblico pretendevano di solito migliaia di dollari,
si offrirono di esibirsi gratis. Elton John, Anne Murray, Glen Campbell e John Denver
cantarono canzoni per Terry. Ken Taylor, l’ambascitore canadese in Iran che aveva
organizzato la fuga degli ostaggi americani attraverso la sua ambasciata, fece il suo
turno ai telefoni.
Il governo dell’Ontario offrì un milione di dollari per
la ricerca sul cancro in quella provincia, in nome di
Terry, eguagliando così l’offerta di un milione che la
Columbia Britannica aveva già fatto.
Dal suo letto al Royal Columbian Hospital, Terry
guardò lo show con gli amici. «Non ci credo, non
posso crederci» disse. Era commosso fino alle lacrime
da un film di bambini dell’Ospedale infantile di
Toronto. «Ecco di che cosa si tratta.» Prima di
addormentarsi, esausto e drenato dalle cure e dalle
emozioni procurategli dallo spettacolo, inviò un
messaggio ai telespettatori di tutto il Canada: «Se in
qualche modo potrò terminare la corsa, lo farò.
Desisero ringraziare tutte le persone che mi hanno
sostenuto, e spero che tutto questo continui in tutte le
province.»
Le persone che cercavano di telefonare entro il termine
del programma alle 23 erano talmente numerose, che la
rete televisiva prolungò lo spettacolo fino a mezzanotte, cinque ore piene, raccogliendo
in totale 10.179.768 dollari. Lo show terminò, appropriatamente, con la commovente
canzone Tomorrow (domani) dalla commedia musicale Annie, un messaggio di
speranza simboleggiante il Miglio 3340 per Terry Fox.
Alla fine dell’anno, il Fondo Terry Fox aveva raggiunto i 21 milioni di dollari. Lo stesso
Terry aveva ricevuto numerosi premi compresa la massima onorificenza civile del
Canada, quella di Compagno dell’Ordine del Canada; e poi l’Ordine del Corniolo della
Columbia Britannica ; e la Spada della Speranza, la massima onorificenza della Società
del cancro americana. Fu anche nominato «Canadese dell’anno» e gli fu conferito il
premio Lou Marsh come miglior atleta canadese dell’anno.
Nel mese di novembre Terry si aggravò e dovette essere riportato d’urgenza
all’ospedale.
Il 5 dicembre, in una conferenza stampa in cui la Cancer Society annunciò il progetto di
costruire un laboratorio di ricerca da un milione di dollari – uno dei primi risultati della
grandiosa raccolta di fondi – Terry rivelò che i medici gli avevano dato un dieci per
cento di probabilità di sopravvivenza. Con voce esitante ma calma, disse: «…se arriverò
al punto in cui mi diranno che sto per morire di cancro, dovrò essere capace di
affrontare la morte e di accettarla… Se potrò batterla e tornare a Thunder Bay, be’
questo sarà magnifico. Ma se non funzionerà così, dovrò essere capace di accettare la
fine. E penso che… avendo un po’ di fede che Dio ci sia… e, sapete, credendo
nell’aldilà… questo mi salverà dalla solitudine…»
Proprio al principio Terry disse: «Tutto è possibile. Se ognuno in Canada offrisse anche
solo un dollaro, avremmo ben 24 milioni di dollari per la ricerca sul cancro. I sogni si
avverano se solo ci si prova.»

LETTURE


Trovo che sia così piacevole leggere per delle persone, un piccolo pubblico.

Piacevole anche se a volte difficile, ci sono da superare tensioni timidezze magari lo sentirsi inadeguati su un palco o comunque in genere tra le persone.

Però a volte i libri o semplicementi dei testi hanno proprio bisogno di essere letti ad alta voce.

Il loro significato ti si penetra di più, ti rimane impresso nella mente come un timbro a fuoco.

In un lavoro di gruppo, come quello che stò frequentando in questo periodo è più facile imparare, confrontarsi con altre persone ti dà modo di capire anche i tuoi di sbagli, di metterti a confronto, e se le idee degli altri sono buone e di sicuro impatto copiarle un pò.....

domenica 21 ottobre 2007



Cosa sognare con una rosa così??

A me un bel massaggio, con profumati olii magri un pò intiepiditi dalle mani del mio uomo...

Mi rilasserei totalmente, chiuderei gli occhi, e lascerei che gli effluvi dei profumi mi riempiano le narici....

LA GUERRA DI PIERO di Fabrizio De Andrè

Dormi sepolto in un campo di grano, non è la rosa non è il tulipano che ti fan veglia dall'ombra dei fossi ma sono mille papaveri rossi. Lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati non più i cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente, così dicevi ed era d’inverno e come gli altri verso l'inferno te ne vai triste come chi deve; il vento ti sputa in faccia la neve. Fermati Piero, fermati adesso lascia che il vento ti passi un po' addosso, dei morti in battaglia ti porti la voce chi diede la vita ebbe in cambio una croce ,ma tu non lo udisti e il tempo passava con le stagioni a passo di giava ed arrivasti a passar la frontiera in un bel giorno di primavera e mentre marciavi con l'anima in spalle vedesti un uomo in fondo alla valle che aveva il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore. Sparagli Piero, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora fino a che tu non lo vedrai esangue cadere in terra a coprire il suo sangue e se gli sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire ma il tempo a me resterà per vedere vedere gli occhi di un uomo che muore e mentre gli usi questa premura quello si volta, ti vede e ha paura ed imbracciata l'artiglieria non ti ricambia la cortesia cadesti in terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chiedere perdono per ogni peccato cadesti interra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che la tua vita finiva quel giorno e non ci sarebbe stato un ritorno Ninetta mia crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio Ninetta bella dritto all'inferno avrei preferito andarci in inverno e mentre il grano ti stava a sentire dentro alle mani stringevi il fucile dentro alla bocca stringevi parole troppo gelate per sciogliersi al sole dormi sepolto in un campo di grano non è la rosa non è il tulipano che ti fan veglia dall'ombra dei fossi ma sono mille papaveri rossi.

CABARET

Ieri sera ho riso a crepapelle per due ore di seguito, sono certa di aver riso anche mentre dormivo questa notte.
Sono stata a teatro a vedere lo spettacolo delle Bretelle Lasche "Le banane si pagano in contanti"
Due ore di divertimento solidale, atipico, un ridere continuo.
Stupefacenti giochi di parole....bravi bravi bravi alle Bretelle un plauso